Secondo quanto stabilito dall’art. 159 c.c., il regime di comunione dei beni si instaura automaticamente al momento della celebrazione del matrimonio, a meno che i coniugi non dichiarino di voler optare per il diverso regime della separazione.
La comunione, che in questo caso viene definita “legale” proprio perché opera in via automatica, riguarda i beni acquistati dai coniugi durante la vita matrimoniale.
Tuttavia, se da un lato ci sono beni che ricadono nella comunione sin dal loro acquisto, determinando la cd. comunione immediata, come:
– gli acquisti compiuti dai coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali;
– le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio;
– gli utili e gli incrementi di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi;
dall’altro, vi sono beni che non ricadono automaticamente in comunione e che dunque rientrano nella cd. comunione de residuo, come:
– i redditi personali dei coniugi, o meglio, i frutti e i proventi dei beni personali percepiti e non consumati al momento dello scioglimento della comunione; rientrano in questa categoria, ad esempio, i risparmi dell’uno o dell’altro coniuge, o di entrambi, non consumati;
– i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente, se sussistenti al momento dello scioglimento della comunione.
Sono esclusi in ogni caso dalla comunione i beni personali di ciascun coniuge e dunque:
– i beni di cui il coniuge era proprietario già prima del matrimonio o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;
– i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di una donazione o eredità, a meno che nell’atto di liberalità o nel testamento non sia specificata la ricaduta in comunione;
– i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge e i loro accessori;
– i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione;
– i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno, nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
– i beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali o con il loro scambio, purché ciò sia espressamente indicato nell’atto di acquisto;
– i beni immobili o mobili registrati nel cui atto di acquisto risulti il consenso dell’altro coniuge perché tali beni siano esclusi dalla comunione.
I beni in comunione possono essere amministrati disgiuntamente dai coniugi quando si tratta di atti che rientrano nell’ordinaria amministrazione; il compimento di atti di straordinaria amministrazione, nonché la stipula di contratti con i quali si cedono o si acquistano diritti personali di godimento, spetta invece ad entrambi i coniugi congiuntamente.
Se uno dei coniugi rifiuta il consenso necessario alla stipula di un atto di straordinaria amministrazione o per altri atti per i quali il consenso è richiesto, l’altro coniuge può rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione, se esso risulta necessario per la famiglia. Allo stesso modo potrà essere adito il giudice in caso di lontananza o impedimento del coniuge tenuto a prestare il consenso, a meno che non vi sia procura rilasciata con atto pubblico o scrittura privata autenticata.
Gli atti compiuti da un coniuge senza il consenso dell’altro sono annullabili se riguardano beni immobili o mobili registrati, a meno che non siano stati da esso convalidati. L’azione è proposta dal coniuge il cui consenso era necessario entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto e in ogni caso entro un anno dalla trascrizione.
Se gli atti riguardano invece beni mobili, il coniuge che li ha compiuti senza il consenso dell’altro sarà tenuto a ricostituire la comunione o a pagarne l’equivalente.
Ai sensi dell’art. 183 c.c., poi, se il coniuge è minore o non può amministrare o ha male amministrato, l’altro coniuge può chiedere al giudice di escluderlo dall’amministrazione; mentre, il coniuge privato dell’amministrazione può chiedere al giudice di essere reintegrato se sono venuti meno i motivi che hanno determinato l’esclusione.
L’eslcusione invece opera di diritto riguardo al coniuge interdetto e permane sino a quando non sia cessato lo stato di interdizione.
Circa le obbligazioni contratte dai coniugi, ai sensi dell’art. 186 c.c., i creditori possono agire sui beni in comunione dal momento che essi rispondono:
– di tutti i pesi e oneri gravanti al momento dell’acquisto;
– di tutti i carichi dell’amministrazione;
– delle spese per il mantenimento della famiglia e per l’istruzione e l’educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi anche separatamente nell’interesse della famiglia;
– di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi.
I creditori del singolo coniuge non possono soddisfarsi sui beni della comunione, a meno che i beni personali del loro debitore non siano sufficienti, ma solo limitatamente al valore della quota ad esso relativa, ossia della metà, senza avere la possibilità di interferire con i creditori della comunione che restano preferiti.
Allo stesso modo, i creditori della comunione possono agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuno dei coniugi nella misura della metà del credito, quando i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti gravanti su di essa.
Lo scioglimento della comunione interviene per:
– morte, dichiarazione di assenza o morte presunta di uno dei coniugi;
– annullamento, scioglimento o cessazione effetti civili del matrimonio;
– separazione legale dei coniugi;
– separazione giudiziale o convenzionale dei beni;
– fallimento di uno dei coniugi.
Al momento dello scioglimento della comunione potranno essere chiesti i rimborsi o le restituzioni delle somme o dei beni prelevati da un coniuge per fini estranei all’adempimento degli obblighi sorti per esigenze familiari.
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